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Nel mezzo della piazza di Valstagna

Liturgia di un conflitto agli inizi del Seicento.di Claudio Povolo

Lo scenario: sulla riva destra del fiume Brenta

Sulla piazza di Valstagna si affacciavano le dimore delle famiglie più agiate della comunità:

un luogo simbolo del villaggio, sia sul piano politico e religioso che in quello economico. Per tre giorni l’anno vi si teneva il mercato, cui affluivano mercanti e imprenditori da tutta le zone circostante per contrattare biade, legname ed ogni genere di prodotti alimentari1. Situato in una posizione strategica, lungo il cosiddetto Canale di Brenta che conduce da Bassano verso il territorio di Trento, circondato da boschi e pascoli assai redditizi, il villaggio era adagiato lungo la riva destra del fiume Brenta. Proprio nel mezzo della piazza del villaggio, ancora nel secondo decennio del Seicento, si ergeva una maestosa cappella, provvista di un altare e circondata da un lungo porticato.

L’immagine di un leone di San Marco spiccava, in alto, sulla facciata anteriore della stessa cappella:

con il muso altero, rivolto fieramente verso i confini austriaci, la zampa destra che brandiva una spada sguainata e la sinistra poggiata su un libro chiuso, essa ricordava visibilmente il ruolo assunto dalla comunità a difesa dei confini della Serenissima nel corso della guerra di Cambrai2. E’ molto probabile che quell’immagine rappresentasse l’onore della comunità e si costituisse come simbolo del perenne legame che univa la piccola patria di Valstagna con la lontana città dominante.

Un’immagine, evidentemente, che sottendeva il ruolo preminente e decisivo delle famiglie più in vista del villaggio, ma che pure non poteva prescindere dal contesto più generale che sul piano politico ed economico si enucleava nella dimensione istituzionale e politica della comunità.

Valstagna, 14 aprile 1618, di primissimo mattino (i fatti).

Quel che avvenne sulla piazza di Valstagna, la vigilia di Pasqua del 1618, è narrato dai protagonisti di questa storia. Una storia complessa, o per meglio dire ingarbugliata, caratterizzata dai molti risvolti, come spesso avviene quando essa è costruita su un conflitto aspro, e si presta ad essere narrata in base alle molteplici prospettive di coloro che ne furono coinvolti e che si fronteggiarono senza mezzi termini. Ma dal loro racconto, senza alcun dubbio, si possono evincere alcuni fatti certi. Ed è da questi che converrà partire per cogliere le dinamiche stesse del conflitto.

Un conflitto che, in un certo senso, si può definire una sorta di liturgia, in quanto espressione di ritualità codificate e di dinamiche assai diffuse all’epoca. È tale liturgia a definire le diverse dimensioni della violenza, le sue motivazioni, i suoi protagonisti e i suoi esiti. Nella vicenda che qui

si esaminerà si può però ravvisare un elemento che, per così dire, si rivela intrusivo e svolge, sin dagli inizi, un ruolo importante nel determinare il corso del conflitto e la dimensione stessa delle componenti della violenza utilizzata dai protagonisti.

1 Sulla storia di Valstagna rinvio all’ampio e documentato lavoro di F. Signori, Valstagna e la destra del Brenta, Cittadella 1981; dello stesso autore cfr. inoltre La chiesa arcipretale di Valstagna e i suoi oratori, Cittadella 1977 e Valstagna. Storia della parrocchia, Cittadella 1979.

2 Si veda la supplica presentata dalla comunità il sei giugno 1618.

Di buon mattino era giunto un certo numero di muratori e di operai provenienti probabilmente dalla vicina Bassano. Quasi in contemporanea, dalle finestre della casa di Antonio Sartore3 erano spuntate le canne minacciose di numerosi archibugi. Si trattava di uomini armati fatti affluire nascostamente nel corso della notte. Gli operai si erano messi subito al lavoro ed avevano cominciato a demolire la cappella e i porticati che si ergevano al centro della piazza. Non sappiamo quale fosse l’intento esplicito dell’azione4. Ma poiché la cosa era avvenuta all’insaputa della stessa comunità, l’operazione era apparsa evidentemente come lesiva del suo onore e delle sue prerogative. E quella gente armata di tutto punto non lasciava adito a dubbi sulle reali intenzioni di Antonio Sartore, colui che stava dietro alla minacciosa iniziativa. C’erano da tempo aspri rancori e dissidi tra il Sartore ed alcuni esponenti più in vista del villaggio. Il tutto apparve come un atto di provocazione, se non di sopraffazione.

Il fatto, di certo, non sarebbe comunque finito lì e probabilmente sarebbe proseguito con tanto di avvocati e di lungaggini processuali nelle magistrature di Vicenza e di Venezia, nel tentativo, di entrambe le parti, di segnare nettamente il confine delle rispettive ragioni. Ma di mezzo c’era un leone, le cui sembianze fisiche suggerivano tutto fuori che arrendevolezza e rassegnazione.

Difatti quel leone era lì da circa un secolo, testimonianza incontrovertibile di eventi del passato, e il suo sguardo deciso ed ostile rivolto verso i vicini confini avrebbe dovuto consigliare prudenza e timore a chiunque vi si fosse avvicinato. In realtà, è arguibile che la cosa non fosse stata del tutto ponderata, così come il probabile verificarsi di un successivo, malaugurato, imprevisto. Molto probabilmente, nel calarla giù, complice pure la fretta, gli operai avevano inevitabilmente arrecato qualche danno alla fiera immagine. E, di conseguenza, quanto era avvenuto in quella vigilia di Pasqua non avrebbe riguardato solamente l’abbattimento e lo spostamento di un modesto edificio situato in un piccolo villaggio della Terraferma veneta. E, tanto più, non poteva essere semplicemente contenuto nelle dinamiche conflittuali che si erano accese per la gestione delle appetibili risorse economiche locali. Le ritualità, o per meglio dire, la liturgia del conflitto erano dunque destinate ad assumere, da subito, aspetti decisamente inediti.

 

6 giugno 1618: la comunità di Valstagna (solennità della liturgia)

Avevano infine deciso di presentare la supplica direttamente al Consiglio dei dieci, il temuto ed importante organo giudiziario veneziano. L’alternativa sarebbe stata quella di ricorrere alla Signoria, così come per lo più avveniva. In tale eventualità, dopo le opportune informazioni raccolte dal podestà di Vicenza, il caso sarebbe stato probabilmente delegato all’Avogaria di comun per essere giudicato dalla Quarantia, un’altra importante magistratura veneziana, la cui procedura era caratterizzata dal contraddittorio giudiziario; e, di conseguenza, il conflitto con gli avversari si sarebbe sostanzialmente svolto ad armi pari5. Ma l’Antonio Sartore era andato giù pesantemente e

3 Nella documentazione dell’epoca appaiono entrambe le dizioni Sartori e Sartore, e anche se la prima sembra prevalere nella documentazione qui esaminata, la seconda è comunque utilizzata dallo stesso interessato nella supplica da lui presentata alla Signoria nell’agosto del 1619 (cfr. infra).

4 Come affermerà successivamente il Sartore in una sua supplica l’obbiettivo era di spostare il capitello in altro luogo della piazza.

5 L’inoltro di suppliche alle magistrature del centro dominante si costituiva essenzialmente come un proseguimento tattico del conflitto locale. Assai raramente, difatti, l’accoglimento della supplica comportava un diretto e intrusivo coinvolgimento del centro lagunare. Tant’è che, molto spesso, la parte che si era inizialmente mossa per ottenere lo spostamento della causa, rinunciava a proseguire l’iter giudiziario, qualora le dinamiche conflittuali locali fossero mutate. Questo, ovviamente, non poteva avvenire se la supplica veniva presentata al Consiglio dei dieci, un organo che procedeva autonomamente ex-officio in base a considerazioni eminentemente politiche. Su questi aspetti rinvio al mio L’uomo che pretendeva l’onore, Venezia 2010.

quella sua incursione nel centro del paese era sta un’insolente dimostrazione di protervia e, per di più, disonorevole per tutta la comunità. Si era così infine deciso di inoltrare la supplica direttamente al Consiglio dei dieci, come consigliava l’avvocato cui si erano rivolti. La rimozione, o per meglio dire, l’abbattimento dell’immagine di San Marco affissa nella cappella della piazza dava adito ad un vero e proprio delitto di lesa maestà. Questa volta il Sartore si era proprio cacciato nei guai. E la sua insolenza era percepita da tutti come un sopruso intollerabile, in quanto da tempo l’uomo s’era inurbato nella vicina cittadina di Bassano, pretendendo comunque di dettare legge avvalendosi della sua parentela e soprattutto del nipote Matteo Grossa che risiedeva a Valstagna. Nel marzo precedente la comunità aveva deciso di affittare il pascolo di Vallerana ed Astiago al signor Antonio Mazzoni, ricco commerciante di legname di Valstagna. Il Sartore aveva immediatamente manifestato il suo dissenso ed era ricorso al podestà di Marostica, ottenendo ingiustamente che i pascoli fossero affidati al nipote. Da tempo lo stesso Matteo Grossa si stava muovendo in paese per suscitare dissensi e per mettere in difficoltà il consiglio della comunità. Ma non si erano affatto arresi ed ora l’abbattimento del capitello offriva un’opportunità che non bisognava lasciar perdere.

E così il loro avvocato aveva stilato una supplica con i fiocchi. Al Sartore non veniva risparmiato alcuna cosa. Se fosse stata accolta, com’era probabile, l’uomo sarebbe stato veramente nei guai. Il sei giugno, accompagnati da un avvocato veneziano, Pietro Franceschini e Antonio Lazzaroni, eletti procuratori della comunità, si presentarono a palazzo ducale con la supplica stesa in precedenza, che venne letta ai tre patrizi che in quel momento, in qualità di Capi rappresentavano nel suo insieme il Consiglio dei dieci.

I Capi, senza perdere alcuna parola, ascoltarono attentamente il racconto che narrava quanto era accaduto a Valstagna qualche tempo prima. Conoscevano bene le dinamiche conflittuali che spingevano i sudditi sino alla città lagunare per chiedere giustizia e il loro intervento decisivo, ma avevano comunque ritenuto che la supplica fosse degna di essere accolta:

Illustrissimi et eccellentissimi signori Capi

Nel mezo della piazza de Valstagna, terra devotissima et fedelissima di Vostre Eccellenze Illustrissime, posta nel Vicentino a confini arciducali, la quale cent’anni sono restò da essi arsa et distrutta sino a fondamenti et di poi tornata a refabrichare et rehabitare dalli medesmi fedelissimi sudditi, fu tra le altre cose construtta una eminente capella, nella quale con imagini, con altare, dove si celebrò anco messa, et con altri segni furono scolpiti ad eterna memoria gli accidenti passati et la continua et non mai interrotta devotione di quei populi verso questo Serenissimo Dominio; et appresso questa furno ancho fabrichati diversi portichali che la circondavano, per li quali erano soliti di passar le processioni nei giorni solenni et si facevano anco li mercati tre volte alla settimana. Nella parte superiore d’essa capella fu effigiata da nostri antenati una belissima et grandissima imagine di San Marco, con la facia et con la spada verso il confin austriacho et con il libro serratto sotto il piede, perché passasse a noi et a nostri posteri perpetuamente una ferma et imutabile rissolutione di perpetua diffesa di questa Serenissima Republica. Onde, et per l’imagine delli santi et per l’antiquità del loco et per il simbolo del gloriosissimo San Marco, che sì come si trovava nel mezo di essa piazza, così noi lo portiamo scolpito nei nostri petti, era questa così pia et generosa memoria somamente riverita et honorata da tutti.

E’ successo l’altro giorno, illustrissimi et eccellentissimi signori, un tragico et funesto avenimento in essa nostra terra et nella medesima capella, perché un signor Antonio Sartori, huomo ricchissimo del medesimo loco, ma non già dell’istesso animo che siamo noi altri tutti, si ha fatto lecito sabbato matina passato la vigilia della santissima Pascha, inanzi giorno, con adunatione di grandissimo numero di armati, li quali la notte medesima haveva segretamente fatti venir nella sua casa con petti indosso et con quantità di archibugi et pezzi di cavaletto drizatti dalle fenestre di essa sua casa che guarda verso la detta piazza et quasi in un subito da molti operari forestieri fece demolire et devastare essa capella et li portegalli che la circondavano, distrugendo con inaudita impietà quelle santissime imagini et quel glorioso et benedetto San Marco, che riempì di horrore et di spavento tutti quelli che a così violente et terribile empito furono presenti, anzi tanto fu l’affanno di tutti noi poveretti vedendo cader a terra parte di essa imagine di San Marco, che incominciassimo a cridar ad alta voce misericordia con non minor spavento et terrore che se un’altra volta dalli eserciti inimici fosse stata arsa et distrutta la povera nostra terra. Et havendo pure alcuno ricercato la causa di così repentina et violentissima attione, fu risposto che esso signor Antonio Sartori l’haveva fatta sotto pretesto de una affitatione da lui ottenuta il giorno avanti solamente dall’offitio illustrissimo delle Rason Vecchie in raggion de ducati 3 all’anno, il che sicome è seguito senza alcuna citatione o cognizione, così habbiamo scoperto che è stata ottenuta con manifesta fraude et ingano da quelli illustrissimi signori, havendo frettolosamente, anzi insidiosamente, fatto risponder dal clarissimo podestà di Marostica non trattarsi interesse né publico né particolare et con altri patti captiosi et pregiudiziali al decoro di Vostra Serenità, alla memoria così antiqua della nostra terra et alla devotione et fede di tutti noi sviseratissimi suoi sudditi, li quali, spinti dal dolore di così acerba et inopinata devastatione, fatta così violentemente da un huomo del nostro medesimo comun, il quale per le richezze et per haversi apparentato con esteri et in particolare con un capitano di confini arciducali, pretende di poter quanto li viene in pensiero, ha mosso tutti noi ad abbandonar le case et li negotii nostri et venir a comparere genuflessi a’ piedi di questo eccelso tribunale et umilmente supplicar la sacrosanta sua giustitia a non lasciar invendicata così grave et scandalosa ingiuria et offesa, machinata et essequita con ingannevoli et falsi pretesti a tanto danno et vilipendio del publico et privato interesse et dar castigo a chi ha ardito di metter mano con tanta violenza nelle sacrate imagini et nell’istessa rev.da maestà del nostro confalon et protettor San Marco et che anco ardisse, come Vostre Eccellenze Illustrissime facendo formar processo potrano ricever informatione, di tener in alcune grandissime sue fabriche poste nella terra di Bassano et altrove gran quantità d’archibusi, moschetti sopra cavaletti con balestriere et altre construcioni in forma di fortezze, una parte delle quali in particolare ha fatto fare frettolosamente li giorni passati, acciochè havuta la verità di tutto il sucesso le possino prender quella rissolutione che in negotio di tanta importanza sarà stimato conveniente dalla somma prudenza di Vostre Eccellenze Illustrissime, alle quali, etc.6

Terminata la lettura, i tre Capi riunirono il Consiglio dei dieci per decidere sul da farsi. Per assumere una decisione era necessaria la maggioranza dei tre quarti dei votanti. Tra i quattrodici presenti sette proposero che fosse scritto ai rettori di Vicenza perché istruissero il processo e poi informassero lo stesso Consiglio sul suo contenuto. Una decisione maturata probabilmente dalla consapevolezza che, pur grave, l’episodio dovesse essere contestualizzato nelle dinamiche conflittuali locali e ci fosse comunque la necessità di disporre di maggiori informazioni. Altri quattro consiglieri votarono però contro e altri tre manifestarono esplicitamente, come non sinceri, la necessità che fossero assunte altre decisioni7. Metà dei presenti ritenevano evidentemente che l’episodio dovesse essere affrontato con maggiore risolutezza e severità. In assenza della maggioranza prevista, il Consiglio dei dieci sospese quindi la decisione, rinviandola ad un’altra successiva seduta.

In attesa della decisione del supremo organo veneziano, le tensioni a Valstagna erano però destinate ad acuirsi, anche perché il tenore della supplica presentata a Venezia si era rapidamente diffuso tra la popolazione ed era ovviamente giunto alle orecchie di Antonio Sartore e della sua parentela. Il 10 giugno 1618 i governatori della comunità riunirono tutti gli abitanti del villaggio nei pressi della chiesa di Sant’Antonio. Alla riunione erano presenti cento e venti capifamiglia, segno dell’importanza di quanto si sarebbe deliberato in tale occasione. I rappresentanti della comunità erano convinti che bisognasse sollecitare nuovamente il Consiglio dei dieci, convincendolo ad assumere una decisione risolutiva. La presenza di tutti quei capifamiglia avrebbe attestata la compattezza della comunità e l’isolamento del Sartore e della sua parentela.

Si deliberò così di inviare nuovamente a Venezia il Franceschini e il Lazzaroni, in qualità di procuratori, insieme al sindaco Ruggiero Perli. La nuova supplica doveva essere accompagnata da una copia dell’atto notarile che testimoniava la folta presenza dei partecipanti alla riunione in cui si decideva di proseguire l’iniziativa avviata in precedenza8.

6 Archivio di stato di Venezia (=A.S.V.), Consiglio dei dieci, Criminali, filza 45, 6 giugno 1618; nella mansione della supplica, dopo la data, veniva aggiunto: “Presentata a nome dei popoli di Valstagna”.

7 Il voto non sincero era un voto che esprimeva astensione rispetto a quello proposto, ma comportava che venisse motivato con una proposta alternativa.

I tre procuratori riuscirono ad essere ricevuti dal Consiglio dei dieci il 18 giugno successivo,

Nella nuova supplica si ricordava quanto era avvenuto sulla piazza di Valstagna nella vigilia di Pasqua di quell’anno, ma si aggiungeva pure come il Sartore, per evitare ogni responsabilità intorno all’accaduto, avesse disseminato per il villaggio la falsa notizia che la supplica presentata il tre giugno fosse in realtà opera di solo tre o quattro esponenti della comunità, i quali, al fine di ilanguidire la giustizia del Consiglio dei dieci, si erano procurati con il denaro il consenso di tutti gli altri. Inoltre Girolamo, figlio di un fratello dello stesso Antonio Sartore, accompagnato da alcuni uomini armati, era giunto in paese chiedendo prepotentemente che gli fossero dati i nomi di coloro che avevano presenziato alla riunione in cui si era deliberato l’invio della prima supplica. Ed infine, a calcare la dose, la supplica si concludeva chiedendo nuovamente il pronto intervento del Consiglio dei dieci, affinché:

si refreni anco l’insolente temerità di confinanti, i quali ardiscono di deridere in nostra facia per esser stato demolito da un de’ nostri quel vessillo sacrosanto di San Marco, che da noi era tanto stimato et reverito per l’anticha memoria di passati accidenti.

Era quanto bastava per superare ogni titubanza dell’organo politico-giudiziario veneziano.

Con la necessaria maggioranza dei tre quarti dei voti veniva deciso quello che probabilmente era stato suggerito da alcuni dei consiglieri lo stesso tre giugno:

Che de presenti sia fatta elettion di uno delli Avogadori de commun, il qual debba quanto prima conferirsi in Valstagna et quivi, con il rito di questo Consiglio, formar processo sopra le attioni fatte in quella terra da Antonio di Sartori imputato di haver gettato a terra una capella posta in mezzo quella piazza, con la imagine del protettor nostro San Marco et distrutto diversi porthicali fabricati intorno alla detta capella, con seta d’huomini et con appostation de archibusi moschetti, acciò nessun potesse impedirglielo et con quelli altri scandalosi accidenti che sono descritti in doi scritture presentate dalli huomini del commun sudetto di Valstagna. Inquirendo anco sopra le altre male operationi del detto Sartori, conforme al contenuto delle sudette scritture, con facoltà di prometter la secretezza ai testimoni et la impunità a chi fosse bisogno, purché non sia il principal auttore o mandante; potendo accettar altre scritture et instruttioni se le saranno date...

L’invio di un avogadore di comun, con il compito di istruire il processo, avvalendosi del rito del Consiglio dei dieci, era quanto di meglio potessero desiderare gli esponenti della comunità che si erano mossi contro il Sartore. La procedura inquisitoria ed ex-officio avrebbe concesso all’avogadore ampia libertà nell’escussione delle testimonianze, anche se il Consiglio dei dieci faceva esplicitamente riferimento alle due scritture della comunità9. Per Antonio Sartore le cose si stavano mettendo male, ma nella decisione del Consiglio dei dieci appariva però uno spiraglio lasciato volutamente aperto nella consapevolezza della complessità delle dinamiche che animavano simili conflitti. L’avogadore, difatti, nel corso del processo, avrebbe potuto accettare pure “altre

8 E nella quale si decideva pure di procedere contro il Sartore e il Grossa per la questione dell’affittanza dei pascoli di Vallerana e Astiago che, in precedenza, la comunità aveva destinato al signor Antonio Mazzoni. Il pretesto dell’affittanza, già ricordato nella supplica del tre giugno, veniva in tal modo esplicitato apertamente, così come la sostanziale contrapposizione tra il Mazzoni e il Sartore. Cfr. A.S.V., Consiglio dei dieci, Criminali, fila 45, 28 giugno 1618, con allegata la nuova supplica e la copia dell’atto notarile. Per quest’ultimo, rogato dal notaio Pompeo Pierli cfr. Archivio di stato di Bassano (=A.S.Ba), Sezione notarile, busta 571, alla data 10 giugno 1618. Ringrazio Francesco Vianello per la trascrizione dei documenti tratti dall’archivio notarile di Bassano ed utilizzati nel presente saggio.

9 Teoricamente l’inquisizione avrebbe dovuto vertere sulle imputazioni descritte nelle due suppliche ed evidentemente le testimonianze escusse si sarebbero essenzialmente enucleate nella conferma della loro (presunta) veridicità. E, a tal fine la comunità avrebbe avuto buon gioco nel presentare i testi più indicati per avvalorare le accuse rivolte al Sartore.

scritture et instruttioni”. Che era come dire che il Sartore, o chi per lui, avrebbe potuto presentare al magistrato veneziano una propria personale visione dei fatti. E fu tramite questo spiraglio che Antonio Sartore evitò di essere stritolato dalla micidiale macchina inquisitoria del Consiglio dei dieci.

Nella notte di Santo Stefano del 1618 (un intermezzo liturgico)

E le cose andarono sicuramente in questa direzione. Nulla sappiamo dell’indagine compiuta dall’avogadore a Valstagna in quei giorni di giugno del 1618. Di certo è che il 15 ottobre 1618, dopo aver esaminato il fascicolo processuale istruito, il Consiglio dei dieci deliberò che la questione della demolizione del capitello fosse decisa dagli stessi tre Capi10. Era una sostanziale rinuncia ad assumere il caso e a proseguire il processo con la solenne citazione del Sartore e degli altri imputati, oppure con la delegazione dello stesso ad un tribunale della Terraferma11.

Le tensioni e le reciproche animosità non erano comunque destinate ad attenuarsi così facilmente. E questo lo si era potuto chiaramente percepire sul finire del 1618, quando ancora la sentenza dei Capi era assai al di là da giungere. Nella notte tra il 25 e il 26 dicembre 1618 venne nascostamente affisso un cartello infamatorio contenente parole oltraggiose nei confronti della comunità, o per meglio dire di chi in quel periodo la reggeva. I sospetti si appuntarono ovviamente sul Sartore e la sua parentela. La comunità aveva infine ottenuto che il caso fosse delegato al tribunale di Padova.12

Ancora una volta la faida tra le famiglie e le parentele più in vista del villaggio, nell’obbiettivo di appropriarsi delle risorse economiche locali, non disdegnava di ricorrere ad un linguaggio che sembrava pericolosamente avvicinarsi all’esplicito ricorso alla violenza e all’intimidazione.

La liturgia del conflitto sembrava arricchirsi e complicarsi con l’inserimento di nuove ritualità, anche se sullo sfondo incombeva, ancora, l’imminente decisione dei tre Capi del Consiglio dei dieci in merito all’abbattimento del capitello di piazza.

Agli inizi di maggio del 1619 i tre Capi deliberarono che Antonio Sartore dovesse ricostruire a sue spese la cappella (con il leone) e i porticati che aveva fatto abbattere13. L’episodio avvenuto il 14 aprile 1618 era stato dunque ricondotto nell’alveo conflittuale che l’aveva originato.

Evidentemente Antonio Sartore era riuscito ad evitare il peggio, inserendosi in un qualche modo nell’indagine condotta dall’avogadore a Valstagna e a dimostrare conseguentemente che il danneggiamento procurato all’immagine di San Marco era stato un malaugurato e fortuito incidente,

ed avvenuto, per lo più, nell’esecuzione del provvedimento di una magistratura lagunare14. Un

10 A.S.V., Consiglio dei dieci, Comuni, reg. 68, c. 107v.

11 In entrambi i casi se Antonio Sartore si fosse presentato avrebbe dovuto difendersi, come prevedeva il rito del Consiglio dei dieci, senza l’esplicito ed aperto aiuto di un avvocato difensore. Sulla procedura del rito rinvio al mio Il processo a Paolo Orgiano (1605-1607), con la collaborazione di C. Andreato, V. Cesco, M. Marcarelli, Roma 2003.

12 La cosiddetta Corte pretoria, nella quale i processi erano istruiti dal giudice del maleficio e la sentenza era pronunciata dal podestà e dai suoi giudici (assessori). Sull’episodio cfr. Signori, Valstagna e la destra..., p. 152. La delega a Padova era stata probabilmente decisa dal Consiglio dei dieci di seguito ad un dispaccio dei rettori di Vicenza che informavano dell’accaduto. Sul cartello infamatorio cfr. Signori, Valstagna e la destra del Brenta, p. 152, oltre quanto riportato infra.

13 Non ho ritrovato nella documentazione veneziana il testo della delibera dei tre Capi, che si può però evincere dalla stessa supplica che il Sartore presentò alla Signoria il 12 agosto 1619 e di cui si parlerà nelle successive pagine.

14 Le Rason vecchie, come è ricordato nella stessa prima supplica presentata dalla comunità (cfr. supra).

risarcimento civile, per quanto, di fronte a tutti, sancisse in definitiva il velleitarismo della sua iniziativa, gli aveva evitato guai assai peggiori e, soprattutto, di incorrere nel gravissimo delitto di lesa maestà.

Il magnifico signor Antonio Mazzoni (dall’esterno del rito liturgico)

Antonio Mazzoni era tra gli esponenti più in vista della comunità, ma in tutta la vicenda che lo contrappose al Sartore aveva preferito assumere una posizione decisamente più defilata. Dal 1609 era riuscito ad ottenere l’affittanza dei pascoli di Vallerana ed Astiago15. Se i suoi interessi si rivolgevano esplicitamente verso l’esterno, sino ad estendersi nella città dominante16, appare evidente che i suoi rapporti con la comunità fossero altrettanto intensi.

L’ostilità della comunità nei confronti del rivale se non ispirata direttamente da lui, certamente ne rifletteva gli interessi e le ambizioni. E comunque aveva avuto buon gioco ad assumere l’iniziativa, considerando che il Sartore già da tempo aveva fatto la scelta ambiziosa d’inurbarsi nella vicina Bassano, anche se ancora tentava di svolgere un ruolo attivo nel villaggio tramite la sua parentela ed in particolare il nipote Matteo Grossa.

Nei primi giorni di maggio i tre Capi del Consiglio dei dieci avevano finalmente deciso che il Sartore dovesse ricostruire la cappella e i porticati fatti abbattere, ricollocando ovviamente il leone di san Marco là dove era stato posto cent’anni prima.

Antonio Mazzoni intuiva bene di dover ora attendersi una dura reazione da parte del Sartore. Ma anche quando questa giunse preferì reagire muovendosi per interposta persona. Di certo Antonio Dalla Pria detto il Zanco era un suo dipendente ed è tramite la sua testimonianza se sappiamo dell’aria che ancora tirava in quel di Valstagna. Il Dalla Pria abitava da circa quarant’anni in paese e faceva di professione lo zattaro: trasportava cioè il legname che per via fluviale giungeva sino a Padova e Venezia. Un lavoro che svolgeva per i grossi commercianti di Valstagna, in primis il Mazzoni. Il 27 maggio 1619 si rivolse direttamente alla Signoria presentando una supplica in cui denunciava l’aggressione che il 17 dello stesso mese aveva subito mentre se ne stava ritornando al suo paese, dopo aver condotto una partita di legname a Padova. Giunto a Curtarolo nel Padovano e dopo aver attraccato alla riva con la sua zattera era stato avvicinato da una decina di uomini a cavallo armati di tutto punto. Non gli ci volle molto a capire chi erano poiché da una vicina carrozza si era minacciosamente proteso il signor Antonio Sartore.

Non si era in realtà trattato di una vera e propria sorpresa, come lasciava intendere il Dalla Pria sin dall’avvio della sua supplica:

Il signor Antonio Sartori, già huomo del commun di Valstagna et hora per le fortune opulenti et per le adherentie contratte con grandi fatto cittadino del Cosniglio di Bassano, devenuto così fiero et implacabille persecutor di questo infelice comun, che hormai per le tiraniche et insidiose insolenze usate agli huomini di esso, ha reso il proprio nome assai ben notto all’eccelso Consiglio di dieci et a Vostra Serenità, ma doppo diverse incursioni, veduto con suo dispiacere il comun tutto unitto et concorde alla propria diffesa, ha stabilitto nel fiero animo suo di annichilarlo con la destruttione degli huomini di esso, ad uno ad uno, come si è più volte lasciatto intender di voler fare...

15 Come osserva Signori nella sua opera Valstagna e la destra del Brenta (p. 170), “il pascolo più ambito e sicuro è quello delle montagne di Vallerana e Astiago. Fornito già di casare e di pozze d’acqua per il bestiame, può accogliere, per la porzione che compete a Valstagna, sino una sessantina di vacche, senza contare il bestiame minuto, pecore o capre che siano”. Un pascolo per cui il Mazzoni aveva pagato cento ducati l’anno. Nel 1623 l’avrebbe ottenuto nuovamente per ventotto anni dietro esborso della somma complessiva di 8400 ducati. Inoltre, come ricorda lo stesso Signori, il Mazzoni era pure uno dei più attivi commercianti di legname.

16 Insieme a i Franceschini i Mazzoni intrattenevano numerosi affari con il patriziato veneziano. Come ricorda ancora Franco Signori “l’attività commerciale di questa famiglia si estende per quasi tutta la prima metà del secolo, ed è quasi interamente assorbita dall’Arsenale di Venezia”, cfr. Signori, Valstagna e la destra del Brenta..., p. 179.

Ma, come realizzò ben presto, continuava il Dalla Pria, il Sartore e i suoi accoliti andavano ricercando le vestiggie del signor Antonio Mazzoni, da loro perseguitato per amazzarlo,

perché subito arrivati al porto, sapendo che quel giorno doveva ritornar da Padova a Valstagna, dove per occasione de suoi partitti con la casa illustrissima dell’Arsenale et d’una menada importantissima di legne da lui condotta al Bassanello di Padova in quelli giorni, era venutto et fermatosi per giorni otto in circa, dimandorno con grande istanza, più d’una volta, s’era passato, ma essendoli risposto di no, disperando di più trovarlo, uno di loro, nominatto Matthio Grossa nepote del sudetto Sartori, veduto et riconosciutto me Antonio Dalla Pria sudetto per huomo del comun, si mosse contra di me et dicendo ai suoi: ‘vedette una bella botta’, mi si aventò contra et alzatto a man piena il calzo dell’archobuso, mi tirò alla testa per amazzarmi. Divertì Dio benedetto il colpo che senza dubio cogliendomi mi distendeva che pur arrivatomi sopra una spalla mi ha ridotto in statto in statto inahabille per buon pezzo ad ogni esercitio...

L’aggressione non era comunque terminata lì:

perché tutti questi, doppo che mi era salvatto, hanno proferitto concetto di questa nattur: che ad uno, ad uno, tutti questi bechi, razze, et altre parole disonestissime, del comun doveranno restar morti per le loro mani; et più oltre a me hanno detto ad alta voce: ‘Villano, becho, questa volta hai letta la mansione, un’altra volta leggerai la lettione’17.

E’ molto probabile che la paura di Antonio Dalla Pria nascondesse quella, ben più motivata, di Antonio Mazzoni. Ma, come spesso avveniva in tali storie, i ruoli erano facilmente interscambiabili e la preda poteva benissimo trasformarsi in cacciatore. Simili vicende s’inserivano infatti in una liturgia del conflitto, inframmezzata di colpi di scena, che ne interrompevano improvvisamente le cadenze e le ritualità. 

Il magnifico signor Antonio Sartore (dall’interno del rito liturgico)

Il 12 agosto dello stesso anno fu la volta di Antonio Sartore a presentarsi davanti alla Signoria con tanto di supplica, lamentando, a sua volta, una ben più grave aggressione. Il suo racconto, per quanto segua gli stereotipi caratteristici di simili documenti, merita di essere riportato interamente.

Antonio Sartore ricordò innanzitutto quella vigilia di Pasqua dell’anno precedente in cui era avvenuto il fattaccio, indicando, senza mezzi termini, in Antonio Mazzoni la fonte di tutti i suoi guai giudiziari:

Hebbi licenza, io Antonio Sartore da Bassano, servo divotissimo di Vostra Serenità, dall’officio clarissimo delle Rason Vechie di fabricar una bottega appresso la piazza di Valstagna, dov’era un capitello antico, dovendo poi trasportar detto capitello in loco più commodo et più conspicuo; il tutto a mio spese et con publico servitio. Et mentre io eseguiva l’ordine di esso magistrato, il signor Antonio Mazzoni mio emulo et inemico, huomo potente et fattioso, spinse quel commune a querelarmi all’eccelso Consiglio di dieci, come s’io fussi stato reo di lesa maestà. Fu perciò mandato l’illustrissimo signor Avogator Contarini a formar processo, ma conosciuta la calumnia fu rimessa la causa all’eccelentissimi Signori Capi dell’eccelso Consiglio, li quali, venendo all’espeditione il mese di maggio passato, terminorno che io dovesse riffar il detto capitello in termine di mesi sei.

17 A.S.V., Collegio, Risposte di fuori, filza 372. Devo alla cortesia di Francesco Vianello la segnalazione di questa e della successiva supplica inoltrate alla Signoria. Il Dalla Pria chiedeva che il caso fosse delegato ai rettori di Padova, in quanto altrimenti sarebbe stato giudicato per competenza dal podestà di Cittadella.

Una decisione che, continuava il Sartore, non era affatto piaciuta al suo avversario:

Il Mazzoni, che pretendeva la mia roina, confuso dalla detta espeditione et arrabiato più che mai, deliberò di levarmi la vita; et havendo perciò osservato che io m’era transferito a Va[l]stagna per far essequir la detta sententia et che si riedificava il capitello, pose gente in insidie e nella casa di un suo nipote, nominato Pietro Lazzaron, et particularmente esso Pietro et un Giacomo Monaro, che guarda per fianco la mia casa: et mentre la mattina delli 9 di luglio passato, ad un’hora di giorno, io ero su la porta della mia casa a far elemosina ad un povero, dalla finestra d’esso Lazzaron, che prima erano serrate per maggiormente a fidarmi, mi furno sbarate diverse archibugiate, alcune delle quale mi colsero nel braccio sinistro con quattro botte, che me l’hanno passato et infranto, et l’altre mi passorno i vestimenti sì che è miracolo ch’io sia vivo.

Infine, a conclusione della sua supplica, Antonio Sartore calcava decisamente la mano:

Io sperava che di così grave et importante delitto, col quale è restata offesa principalmente la dignità del supremo tribunale delli detti eccelentissimi Signori Capi, nell’atto dell’essecutione della detta sua sententia, dovessero gli illustrissimi signori rettori di Vicenza darne parte a detto eccleso Consiglio, ma la potenza et adherenze d’esso signor Mazzoni è così grande che mi persuado, et così credo, che per la lontananza del luoco et con la sua autorità non haverà lasciato capitar forse a tempo così detestando delitto all’orechie di detti illustrissimi signori Rettori, oltre l’altre adherentie che ha in detta città. Et essendo io in stato che non possa approssimar, nè in Vestagna, nè in Vicenza, senza manifesto pericolo della vita, come se n’è veduta anco hora la esperienza che solo vi sono andato per essequir l’ordine degli eccelentissimi Signori Capi sopradetti; per il che son sforzato io povero et infelice Antonio sudetto a ricorer ai piedi della Serenità Vostra, humilmente suplicandola che, prese le debite informationi dalli illustrissimi signori Avogadori de comun, avanti li quali farò sicuramente scaturir la verità et in qual altro luoco parerà alla Serenità vostra, si degni de dellegar così enorme eccesso all’istesso officio illustrissimo dell’Avogaria, ove con una sinciera informatione di processo la giustitia haver possa la verità del fatto et consequentemente castigar i colpevoli18.

La pace (le ultime fasi della liturgia)

La supplica inoltrata da Antonio Sartore alla Signoria segnava indubbiamente un punto a suo favore, ottenuto molto probabilmente di seguito ad una mossa improvvisa ed inconsulta degli avversari (in particolare di Pietro Lazzaroni, nipote del Mazzoni). Di certo si trattava di una fase ulteriore di un conflitto complesso le cui dinamiche, pur collocandosi decisamente nel contesto locale, non disdegnavano di avvalersi del frequente ricorso alle magistrature lagunari.

L’incidente (il presunto vilipendio all’immagine di san Marco) avvenuto la mattina della vigilia di Pasqua del 1618, si era collocato nell’esplicita strategia di Antonio Sartore volta a giocare comunque un ruolo importante nell’ambito della comunità da cui egli proveniva e nella quale ancora individuava interessi economici rilevanti19.

Ma non si trattava solo di un conflitto giocato per la gestione e l’appropriazione delle appetibili risorse economiche locali. Il ricorso alle magistrature veneziane e la stesura di suppliche nelle quali gli avversari venivano dipinti con tratti fortemente negativi potevano infine essere considerati elementi intrinseci di una liturgia conflittuale che si giocava sul piano assai più importante dell’onore e della rappresentazione sociale.

18 A.S.V., Collegio, Risposte di fuori, filza 372. La Signoria accolse solo in parte le richieste del Sartore, decidendo che la consueta risposta sul testo della supplica dovesse essere data dagli stessi rettori di Vicenza.

19 E che riteneva di poter gestire tramite il nipote Matteo Grossa. Come si ricorderà, Antonio Sartore si era infatti inurbato nella vicina Bassano e molti dei suoi interessi erano gestiti direttamente dal nipote.

Ovviamente la complessità della vicenda, con i frequenti colpi di scena20, assai difficilmente avrebbe determinata la netta affermazione di una delle due parti. L’esito finale di un accordo e di una pace segnava in definitiva la fine o la tregua del conflitto, ma anche i rispettivi risultati raggiunti.

Il sei settembre 1619 fu Matteo Grossa a giungere ad un accordo con la comunità.

Probabilmente l’intensità raggiunta dal conflitto, che lo vedeva direttamente esposto in prima persona, l’aveva infine indotto a trovare una soluzione di ripiego. L’accomodamento, ottenuto tramite la mediazione del patrizio veneziano Giovanni Tiepolo, rifletteva di certo l’estensione di una contrapposizione che si era ormai ramificata ai diversi livelli della vita economica e istituzionale locale21.

Con la pace stipulata tra il Grossa e la comunità, l’aspra contesa che contrapponeva Antonio Mazzone e Antonio Sartore era infine destinata a rientrare, sancendo se non la sconfitta di quest’ultimo, certamente il fallimento del suo tentativo di inserirsi decisamente nella gestione delle risorse locali.

La vicenda si concludeva finalmente il 18 marzo 1620 con la nomina da parte della comunità, e del suo sindaco Antonio Mazzoni, di un procuratore incaricato di recarsi a Padova per presentare all’ufficio giudiziario locale un formale atto di remissione nei confronti del signor Antonio Sartore per la questione del cartello infamatorio affisso nella notte di Santo Stefano del 1618.22

20 E nei quali le dinamiche stesse della violenza, intesa in tutte le sue sfumature, sembrano amplificarsi od assumere talune specifiche conformazioni, nell’ambito delle tensioni generazionali. La contrapposizione qui esaminata, che di certo fa capo agli esponenti anziani delle parentele contrapposte (Antonio Sartore e Antonio Mazzoni) si evolve poi, talvolta con esiti imprevedibili, nel momento in cui ad assumere il ruolo di co-protagonisti sono i loro membri più giovani.

21 L’accordo, steso in più punti, metteva in rilievo la complessità del conflitto in corso, nelle sue dimensioni civili e penali, ma soprattutto sanciva, almeno formalmente, il distacco del Grossa da Antonio Sartore: “Poscia che il magnifico Matio Grossa da Valstagna q. d. Zuanbattista havese ricercato acomodamento verso il comun et homini di Valstagna per causa et occasioni di acidenti passati come presenti et contraversie che si atrova questo comun di Valstagna con Antonio Sartori, essendo questo Grossa congionto et unito, et fautor del preditto Antonio Sartori et percò volendo stacarsi, et separarsi dal predetto Sartori et havendo esso d. Matio Grossa facto instantia per quietarsi con il comun et homini di Valstagna mediante il favor et intravenio dell’illustrissimo signor Zuane Tiepolo nobile veneto ivi presente, amicabile de ambe le parti, comparso ivi il magnifico d. Rugier di Pierli sindico et ms. Zuanantonio di Gianese degan de Valstagna, il magnifico signor Antonio Mazoni, il magnifico d. Antonio Lazaron [...] tuti da Valstagna, ivi presenti facendo et intravenendo per nomine loro proprio et dell prefatto loro comun, unanimi per il qual hano promesso de ratto, sonno venuti in questo pensiero et deliberation di acomodamento con il soprascritto d. Matio Grossa ivi presente si come dalli infrascriti capitoli sarà decchiarato videlicet: Prima che esso Grossa debba sodisfar il comun predetto di quanto li andarà debitor di colte et resti di quelli scaduti in esso comun sino al sudetto zorno senza alcuna contradicion Secondo che sii, et s’intenda rimesso ogni et cadauna difficultò nel magnifico signor Tiozo Tiozi di Angaran et nel magnifico signor Pasini Homacini di Bassan per la pretensa che tiene et che ha ditto Grossa contra il comun per causa et occasion de colte che di cetero si butasse per comun per le contraversie che ditto comun ha contra Antonio Sartori solamente; ma che in ogni altro acidente sia et esser debba unito in pagar colta e altri gravami occorenti al ditto comun che pro tempore si come farano li altri dell comun. Terzo che esso Grossa debba et sia tenuto removersi della quarella datta al sinico e degan et al nodaro et al magnifico signor Antonio Mazoni homeni del predetto comun di Valstagna, come inocenti di quella, non essendo stato suo pensiero di detto d. Grossa de querelar, nè meno metervi parola di sorte alcuna, ma il tutto inventione di Antonio Sartori come quello che a speso, et con quel miglior modo che saranno essi homeni et nodaro et commun conselgiar tali loro avocati. Quarto. che medemamenti ditto Grossa s’habbi remover della instantia che a fato per l’espedicioni di quela querella data per il q. d. Cesaro Grossa a ms. Zuanantonio di Gianesi degan per adietro. Quinto. che medesmamente il predito ms. Zuanantoni di Gianesi degan, o altri che habesero quarelato ditto Grossa per il terzarolo nel modo che parerà ad esso d. Grossa aciò resti discolpato da quella debba, et debbano removersi. Il qual Grossa et homeni del preditto comun tuti ivi presenti così persuasi dal soprascritto signor illustrissimo hanno cautato et aprobato et ratificato quanto ut supra si contiene prometendo l’una parte et l’altra haver il tuto fermo, ratto et grato [...] et per più coroboration di quanto esso d. Matio se ha dato la mano, et abraziato con molti di essi homeni principali del sudetto commun per segno di buona et sinciera pase, tralasciando ogni rancor che per adietro fusi stato”, A.S.Ba, Notarile di Bassano, busta 571, alla data. Sulle paci stipulate tra la comunità, dapprima con il Grossa e poi con il Sartore, cfr. Signori, Valstagna e la destra del Brenta..., p. 153.

L’atto di procura veniva steso “sulla piazzetta, appresso il capitello”. La nomina seguiva l’atto di pace stipulato pochi mesi prima23.

Le ultime fasi del conflitto segnavano l’indubbio successo di Antonio Mazzoni e degli altri esponenti più in vista del villaggio, i quali avevano vittoriosamente rintuzzato i tentativi d’inserimento da parte di Antonio Sartore nella vita della comunità. Quest’ultimo poteva comunque uscire dal confronto a testa alta, senza gravi conseguenze sul piano dell’onore.

La vicenda sviluppatasi a Valstagna sul finire del secondo decennio del Seicento riproduce moduli assai diffusi nella tipologia dei conflitti della prima metà del Seicento: la violenza (intesa nelle sue varie dimensioni) si costituiva come un vero e proprio sistema regolatore sociale, dotato di una molteplicità di percorsi, di gradazioni e di valori. Nell’insieme degli episodi esaminati i conflitti, pur dotati di notevole intensità, sembrano contenere il livello di violenza che le parti sono inclini ad utilizzare24, e i tentativi di monopolizzare le istituzioni locali si alternano ai frequenti e strumentali ricorsi alle magistrature del centro dominante.

L’abbattimento del leone, imprevisto e probabilmente non desiderato o voluto, caratterizzò però in maniera peculiare le sequenze stesse di un conflitto che si svolgeva ai confini della Repubblica. L’atteggiamento delle magistrature veneziane coinvolte si rivelò prudente ed attento a privilegiare le istanze che si esprimevano tramite la voce istituzionale e collettiva della comunità (i popoli di Valstagna). E chi, come Antonio Mazzoni, si mosse animando il conflitto dall’interno della comunità poté disporre di un indubbio vantaggio, che infine agì in maniera determinante sugli esiti della vicenda.

E, in definitiva, quel leone rappresentava simbolicamente il legame indissolubile e reciprocamente vantaggioso tra la grande città lagunare e quella piccola comunità disposta ai confini dello stato.

22 L’atto di remissione si costituiva come il formale atto di rinuncia della parte offesa a proseguire la denuncia che aveva dato avvio al processo; su questo istituto e le sue implicazioni processuali cfr. N. Othelii, del modo di diffendere li rei in Processo e difesa penale in età moderna. Venezia e il suo stato territoriale, a cura di C. Povolo, pp. 493-494. Come osservò l’Ottelio, la remissione era un sostanziale riconoscimento dell’innocenza dell’imputato da parte dell’offeso.

23 Per queste ultime fasi cfr. A.S.Ba, Notarile di Bassano, busta 571, alle date 11 febbraio, 13 e 18 marzo 1620. Il 22 dicembre 1619 Antonio Mazzoni era stato eletto sindaco della comunità (cfr. Ibidem, alla data). E’ arguibile che l’atto di pace con il Sartore venisse steso in questo stesso periodo. E’inoltre probabile che nello stesso atto di pace il Sartore, a sua volta, rinunciasse a proseguire nel caso dell’aggressione denunziata con la supplica del 12 agosto 1619.

24 Nonostante ovviamente le descrizioni forti tramite cui vengono dipinte le reciproche aggressioni.